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Né Leader, né Follower, è iniziata l’era dei… Fòlleader!

Spazi e luoghi di lavoro, modelli e processi organizzativi attuali non sono più adatti al mondo che cambia, non più a misura di ciò che l’uomo sta diventando e vuole davvero. Come sta cambiando il “mindset” delle persone e come le organizzazioni devono modificarsi per non rischiare l’estinzione?

Testo di Claudio Allievi (*)

Non si torna più indietro! Pur con differenti opinioni sul nostro futuro, da quelle che prevedono scenari drammatici a quelle più ottimistiche, intellettuali, filosofi, esperti sono tutti d’accordo sul fatto che la pandemia del Corona Virus ha cambiato per sempre il nostro modo di lavorare, di organizzarci, di vivere.
“La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora capito, e lo farà presto, che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana, o addirittura dopo qualche mese. Alcune cose non torneranno mai più”. Questa la sentenza conclusiva di Gordon Lichfield, direttore del MIT Technology Review nel suo articolo del 17 marzo scorso intitolato “We’re not going back to normal”. Lichfield prende spunto dagli scenari ipotizzati dal team di epidemiologi dell’Imperial College di Londra, guidato da Neil Ferguson, che ha simulato l’evoluzione dell’epidemia di Corona Virus nel Regno Unito.
Tuttavia, la crisi conseguente alla diffusione del Corona Virus non era certo imprevedibile. Nel marzo 2015 Bill Gates all’interno di un Ted talk disse: “La prossima guerra che ci distruggerà non sarà fatta di armi ma di batteri. Spendiamo una fortuna in deterrenza nucleare, e così poco nella prevenzione contro una pandemia, eppure un virus oggi sconosciuto potrebbe uccidere nei prossimi anni milioni di persone e causare una perdita finanziaria di 3.000 miliardi in tutto il mondo”.
Non si trattava di una voce fuori dal coro, altre autorevoli fonti, come ad esempio le riviste Foreign Policy e The Atlantic, avevano dedicato articoli di copertina alla grande epidemia in arrivo. Anche l’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità, aveva dato grande risalto al rischio imminente di una pandemia, dandole persino un nome in una conferenza del 2018: Disease X. La Banca Mondiale ci arrivò addirittura prima, nel 2017, quando nel suo report “Pandemic Bond” aveva previsto la diffusione di un virus come il Covid19.
Se da una parte, quindi, quella del corona virus è la “Cronaca di una morte annunciata”, dall’altra i segnali che provengono dallo scenario internazionale ci dicono che si innesta su una crisi di sistema più ampia, nello sviluppo capitalistico attuale caratterizzato dalla globalizzazione e dai relativi cambiamenti geo-politici. Le diseguaglianze crescono, un numero sempre più alto di persone nel mondo viene escluso dall’educazione e dalla conoscenza, il mondo del lavoro è in crisi, le conseguenze climatiche di uno sciagurato atteggiamento dell’essere umano, non curante dell’ambiente che lo ospita, sono sempre più evidenti e preoccupanti. Tutto questo mentre siamo ufficialmente entrati nell’antropocene, ipotizzata nel 1992 da Andrew Revkin e proposta alla comunità scientifica nell’anno 2000 da Crutzen e Stoermer in una newsletter del Programma Internazionale Geosfera-Biosfera. Il termine indica l’attuale epoca geologica, in cui l’essere umano e le sue attività sono le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche del pianeta.
Come si riflette tutto ciò all’interno delle organizzazioni? Sicuramente chi si occupa di gestire altre persone non può non tenere conto delle trasformazioni in atto se vuole aumentare le possibilità di sopravvivenza del proprio gruppo, elettorato, azienda, in questa fase attuale e in quelle future che si schiuderanno dopo il suo passaggio.


Pianificazione e controllo: ma cosa controlliamo veramente…?

Come uno schiaffo in pieno volto, il Corona Virus ci ha riportati a una realtà antropo-ILlogica, che non volevamo o non eravamo più in grado di vedere, fatta di individualismo, di competizione sfrenata e di egoismo imperante. Da questo incubo possiamo ri-svegliarci, riappropriandoci di quello spazio di pensiero che finora ci siamo negati, per riflettere, decidere e agire in modo più coerente con ciò che siamo e col mondo in cui viviamo.
Alcuni intellettuali affermano che abbiamo, come in tutte le crisi finora affrontare dall’essere umano, tutto ciò che ci serve per dar vita a un nuovo “rinascimento”, una nuova fase di evoluzione dell’umanità.
La tecnologia è legata a doppio filo a questa crisi: da una parte ha colonizzato la nostra mente, condizionando non solo la nostra percezione della realtà, ma anche la nostra capacità di immaginare e sognare un mondo diverso.
Ci ha nutrito dell’illusione del controllo. Ci siamo sentiti protetti, capaci di pianificare e organizzare qualsiasi aspetto della nostra vita, crogiolandoci nella sicurezza illusoria di controllare la morte, come direbbero gli psicanalisti, ponendoci solo obiettivi di brevissimo termine, egoistici e primitivi, in una prospettiva che Yuval Noah Harari denuncia magistralmente già nel titolo del suo celebre libro “Sapiens. Da animali a dèi”.
Peccato che, come preannunciava Ulrich Beck nel suo saggio “La società del rischio. Verso una seconda modernità”del 1986 (iniziato a scrivere prima della catastrofe nucleare di Chernobyl, nda), “più la società cerca di imporre un totale controllo del rischio e la razionalizzazione delle vite e delle esperienze delle persone con l’obiettivo di eliminare ogni rischio, e più in realtà i rischi si manifestano da ogni dove”.
Lo “schiaffo” della pandemia ci ha costretti ad aprire gli occhi sulla realtà: non siamo immortali e non possediamo il controllo su tutto, anzi più pensiamo di avare ampliato il nostro controllo e più le catastrofi e le crisi emergono e si manifestano.
Dall’altra parte, però, la tecnologia ci fornisce un’infinità di opportunità. In questa fase pandemica ci ha permesso di mantenere vivi rapporti e relazioni umane, di progredire nella sicurezza dei cittadini e delle aziende con le App per il monitoraggio dei contagi, le piattaforme per lo smart-working e le continue innovazioni che mette a disposizione di chi le sa cogliere e utilizzare al meglio.
“Tutti collegati in Rete, connessi alle piattaforme tecnologiche che tanto avevano già colonizzato le nostre vite, grazie al coronavirus, scopriamo oggi i limiti della virtualità onlife, riscopriamo il bisogno esiziale e naturale dello spazio pubblico, del contatto fisico, della prossimità sul mezzo pubblico o in un parco cittadino” (“La civiltà del vento al tempo del Coronavirus”, Carlo Mazzucchelli, 2020, e-book).


La metamorfosi degli spazi e dei tempi di lavoro

Diciamolo chiaramente: i concetti di “spazio” e “tempo” di lavoro (e di vita), sono stati stravolti in un battito di ciglia, il Corona Virus li ha prima investiti, poi buttati gambe all’aria e infine modificati per sempre. Al di là della tragedia umana vissuta personalmente da molti di noi, come genere umano possiamo però imparare la lezione e guardare con ottimismo al futuro.
Il “tempo” di lavoro non potrà più essere connotato dal narcisismo del “presente”, dimensione in cui domina incontrastata l’urgenza, in cui tutto è da fare “per ieri” e in cui l’importanza e il senso del lavoro perdono di significato. Certo, lasciarsi dettare l’agenda dalle urgenze, dagli impulsi del momento, ci consente di non pensare, non pianificare, seguire l’onda e farci trasportare. Il Covid-19, ma prima di lui gli effetti nefasti sull’eco-sistema generati dal nostro “spensierato” agire quotidiano, hanno mostrato gli effetti nefasti di questa rinuncia al pensarci come collettività per identificarci nei nostri bisogni egoistici di sviluppo a tuti i costi in cui il PIL la fa da sovrano, schiavi di quello che Mazzucchelli definisce “consumerismo mondializzato”.
Siri, Alexa, Google Assistent sono velocissimi più di qualunque altro essere umano a trovare le risposte alle nostre domande, peccato che siano le domande ad essere sbagliate…
Il “tempo” di lavoro però non potrà più essere connotato nemmeno dal dominio assoluto dei budget e dei target assegnati all’inizio dell’anno e chiusi in cassaforte, intoccabili per i 12 mesi successivi, perfetti in una dimensione “ideale” di sistema chiuso, a bassa variabilità, illusori in un mondo che cambia alla velocità della luce.
Obiettivi a medio e lungo termine più attenti alle reali necessità delle persone, rispettosi dei loro ritmi, dei loro sogni, dei loro valori dovranno nuovamente trovare spazio nelle agende di manager e imprenditori prima che dei lavoratori che gestiscono.
Lo “spazio” di lavoro dovrà tenere conto di quanto stava già accadendo in passato e che il corona virus ha solo evidenziato: tra l’estremo degli agorafobici “open space”, impersonali e privi di alcuna privacy per le persone che ci lavorano, costrette ad una condivisione “forzata” e disadattiva in cui persino una telefonata ad un cliente diventa di dominio pubblico, e l’estremo opposto, claustrofobico, del “vecchio” ufficio in cui la scrivania del capo domina e osserva i “subalterni” seduti tra i “banchi”, in cui non si muove foglia che lui non voglia, il fil rouge è da sempre, ancora una volta, il controllo.
Come lo smart working sta dimostrando, se da una parte la tanto agognata (dalle aziende) produttività dei lavoratori aumenta, in netto contrasto con le previsioni, errate, dei tanti manager che in tutti questi anni si erano opposti per questo motivo all’introduzione di forme alternative al lavoro tradizionale in ufficio, dall’altra c’è bisogno di un equo contrappeso alla diminuzione delle occasioni di socializzazione per le persone (vedasi il report “Smart working: una rivoluzione da non fermare” dell’Osservatorio HR Tech del Politecnico di Milano dell’ottobre 2018 e il più recente articolo di Milano e Finanza del marzo di quest’anno “Smart Working, un grande vantaggio, ma attenzione alla qualità delle performance e alla tutela dei dati aziendali”).
Le indagini statistiche ci dicono che i punti deboli del lavoro smart, delocalizzato, sono l’isolamento rispetto alle dinamiche dell’ufficio e le difficoltà nella pianificazione delle attività. Se per quest’ultimo punto possiamo già intravedere alcuni possibili supporti formativi e di strumenti, la vera sfida per le aziende sarà quella di soddisfare la richiesta delle persone di un nuovo “storytelling”, un nuovo modello alternativo di fare impresa, profondamente diverso da quello tradizionale.


Il nuovo “Umanesimo”: cosa possiamo fare e cosa dobbiamo… smettere di fare!

Per quanto riguarda il ruolo giocato dagli spazi di lavoro, nel futuro ormai presente sarà sempre più necessario dare alle persone “buoni motivi” per raggiungere l’ufficio. Le organizzazioni dovranno essere ripensate in una nuova prospettiva realmente umano-centrica. Bisogna dare un nuovo significato alla sede di lavoro che deve diventare un punto di riferimento “sociale”, in cui la persona si reca spontaneamente, perché sa che solo in quel luogo incontra persone con cui instaura relazioni soddisfacenti e di qualità.
La stessa parola “ufficio” che deriva dal latino officium, cioè ‘dovere, cortesia, servigio’, composto di opus ‘opera’ e del tema di facěre ‘fare’, deve essere ripensata in toto! Non dovrebbe più avere il senso di un ‘obbligo’ né tantomeno di un ‘fare’ ma piuttosto avere le êradici saldamente piantate nel ‘ben-essere’, emozione e non azione, contenitore facilitante di pensieri e azioni, non azione essa stessa.
I luoghi professionali devono diventare uno stimolo alla creatività, dimensioni dal forte volte simbolico positivo di spinta alla proattività, vissuti dalle persone come occasioni generative di sostegno e facilitazione rispetto ai propri obiettivi, professionali e personali, alla propria vita e al proprio benessere.
Strumenti di lavoro, luoghi e tempi, vanno interamente ripensati per aiutare le persone a crescere in una prospettiva più adatta (e adattiva) alle mutate condizioni dello scenario attuale. In questo momento servono nuove idee, nuove suggestioni, nuove utopie che ispirino le persone, che non nascono dalla pressione sui risultati, bensì dalla creazione di luoghi e climi di lavoro positivi e (ri)creativi.
Le metriche vanno ripensate in relazione alle nuove esigenze del business: legare la felicità delle persone al raggiungimento di obiettivi è un concetto profondamente sbagliato per l’azienda stessa prima che per il lavoratore, come ci dimostrano le evidenze sperimentali della psicologia positiva. Posticipare la soddisfazione personale al raggiungimento di target, personali o professionali, spinge la felicità sempre più lontano dall’individuo: una volta raggiunto un target si sentirà il bisogno di costruirne uno più grande per essere nuovamente appagati, in una sorta di deviante “assuefazione da obiettivi”, e ben presto l’obiettivo stesso diventerà così spropositato da essere irraggiungibile e, in quanto tale, demotivante. Prima del successo e della felicità c’è la nostra percezione del mondo, quindi prima di poter essere felici e di ottenere il successo al lavoro abbiamo bisogno di creare una realtà positiva che ci permetta di vedere felicità e successo come opportunità possibili. Utilizzando i dati emersi da diversi studi condotti in USA, lo psicologo Shawn Achor (autore americano e oratore noto per il suo sostegno alla psicologia positiva, autore di “The Happiness Advantage” e fondatore di GoodThink inc.) sostiene che il quoziente intellettivo e le capacità tecniche siano in grado di influenzare il raggiungimento del successo lavorativo solo per un 25% circa. Il fattore, invece, che ha la maggiore influenza positiva è quello che lui chiama il “positive genius” cioè la capacità di attivare tutte le risorse cognitive, intellettive ed emotive per creare una realtà in cui il successo sia una possibilità. La felicità, pertanto, non è essere ciechi rispetto alle negatività dell’ambiente esterno, bensì sviluppare la consapevolezza che abbiamo il potere di fare qualcosa per cambiare la situazione in meglio.
“Una destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose”, sosteneva lo scrittore statunitense Henry Miller.
I luoghi di lavoro dovranno quindi puntare sempre più al benessere delle persone più che all’efficienza produttiva e anche le modalità di incontro tra le persone, in quei luoghi, dovranno necessariamente cambiare in modo radicale.
Attualmente alcune dimensioni spazio-temporali delle organizzazioni non sono per niente rassicuranti. Molti manager usano il (poco) tempo a disposizione negli incontri con i propri collaboratori per parlare unicamente di business, di numeri… e spesso l’occasione è il mancato rispetto degli “standard” attesi. Il tempo dedicato alle persone, al loro benessere, alle loro aspirazioni, alla loro percezione del clima di lavoro è quasi nullo.
L’allontanamento forzato di questi ultimi mesi dalle sedi abituali di lavoro può aiutare a trasformare gli “uffici” in luoghi di aggregazione sociale dove far (ri)vivere i valori che sono il vero motore della produttività e dell’efficienza delle persone: umanità e solidarietà intesa come capacità di cooperare per scopi comuni.
Questo sarà possibile solo se la rivoluzione degli spazi fisici sarà accompagnato anche da un profondo ripensamento di quelli simbolici: le agende di tutti noi, soprattutto dei manager, si trovano in questo periodo ancor più compresse, tra videochiamate e incontri virtuali, in una spinta bulimica a produrre per non sentire l’angoscia del segno 0, o addirittura negativo, alla voce “incremento della produttività”.


L’era dei Fòlleader!

C’è una grande opportunità in questo momento: quella di aggiustare la propria agenda, evidenziando le attività a reale valore aggiunto e quelle da rivedere, delegare o eliminare del tutto.
Siamo essere adattivi e su questo dobbiamo fare leva per la nostra rinascita.
Ascoltare sarà la prima cosa da fare alla ripresa del lavoro nella “nuova normalità”, per capire cosa funziona ancora e cosa non funziona più o addirittura è di ostacolo a questa rinascita umanistica.
Ci troveremo di fronte a manager talmente abituati a trasmettere informazioni agli altri che non sapranno più ascoltare veramente le persone che li circondano. Allo stesso tempo, ci troveremo di fronte a collaboratori talmente assuefatti a ricevere istruzioni da eseguire che non saranno pienamente autonomi nel prendere decisioni e assumersi responsabilità. La stessa idea del “leader” dovrà essere ripensata. Siamo portati a dividere il mondo in bianco e nero, giusto e sbagliato, leader e follower. Io penso che sia cominciata invece l’era dei Fòlleader…
Tra Follia e Lucidità, un po’ Follower un po’ Leader, il Fòlleader appartiene alla Folla, talvolta si perde nella massa e qualche volta emerge alla testa di un gruppo. Dalle Sardine a Greta Thunberg, dal Corona Virus alla rivolta del popolo americano all’uccisione di Floyd: evidenziato il fallimento della globalizzazione consumistica che ha portato individualismo e disgregazione sociale, riscopriamo il bisogno della socializzazione e della solidarietà.
Abbiamo bisogno di Fòlleader, di “eroi” comuni, persone normali, eroi non per abilità straordinarie ma per avere contribuito con la propria natura “imperfetta” di uomini e donne ad azioni di straordinaria utilità. E in questo, il “mostro” corona virus si sta trasformando nel “nostro” corona virTus, capace di tirare fuori il meglio di alcuni di noi, padri e madri che hanno sostenuto e aiutato i propri figli, medici, infermieri e personale sanitario che si sono prodigati per aiutare altre persone proprio nei luoghi in cui il rischio di contagio era massimo, nonostante i pericoli e la fatica di turni impossibili e disumani.
In questo senso, ciascuno di noi può essere un Fòlleader, un eroe, o un “talento” per dirla all’aziendalese, se solo siamo in grado di metterlo nelle condizioni di realizzare le proprie potenzialità.
“L’eroe ha coraggio, vince la paura ed esce allo scoperto. Molti eroi hanno storie di ribellione, resistenza e coraggio, sono spesso impegnati pacificamente, lontano dai riflettori nel difendere i diritti umani, l’ambiente e le comunità. Questi eroi raramente si incontrano sulle piattaforme tecnologiche dei mondi virtuali e digitali online” (“La civiltà del vento al tempo del Coronavirus”, Carlo Mazzucchelli, 2020, e-book).
E forse, con meno Leader e più Fòlleader, sarà quel pizzico di sana follia, come spesso accaduto nella storia dell’uomo, a indicarci l’uscita dalla cecità illusoria del nostro tempo.

(*) Claudio Allievi – Nato a Milano nel 1968, è sposato e padre di due bambini. Laurea in ingegneria nucleare, ha fondato, nel giugno 2017, K-Rev, una start-up per la digital innovation nell’HR, di cui è Presidente. Da oltre 20 anni si dedica con passione allo sviluppo delle tecniche, abilità, capacità e competenze che ruotano attorno alla comunicazione interpersonale e al comportamento organizzativo, in tutte le sue forme professionali. Svolge prevalentemente attività di progettazione e realizzazione di interventi di formazione e di coaching per lo sviluppo delle abilità di relazione in ambito professionale per organizzazioni profit e non profit, pubbliche e private, prevalentemente con finalità a carattere sociale. Ha un’esperienza più che ventennale nella progettazione ed erogazione di interventi di consulenza e formazione, di Team, Group e Personal Coaching per i livelli Executive e manageriali, nella docenza e nella conduzione di corsi e seminari per quadri e dirigenti, nonché nella ricerca e nello sviluppo di metodi e strumenti finalizzati allo sviluppo delle risorse umane nell’area del comportamento organizzativo (ad esempio, sviluppo dell’approccio dell’EMOTICA©, applicazione delle abilità emotive alla gestione delle relazioni professionali). Principali tematiche affrontate: Leadership & People Management, Conflict Management & Negotiation, Executive Team & Personal Coaching, Time Management, Problem Solving & Creativeness.

 


A cura della redazione

Officelayout è la rivista di Soiel International, in versione cartacea e on-line, dedicata ai temi della progettazione, allestimento e gestione degli spazi ufficio e degli edifici del terziario

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