Green office design in tre parole: qualità, necessità e servizio
Il punto sulla sostenibilità nel settore del design per l’ufficio, fra ricerca di una visione olistica, l’adesione ai protocolli delle certificazioni di prodotto e filiera, e le evoluzioni di sistema legate all’economia circolare
Semplificare un mondo complesso. Per definire il green design nel settore ufficio è necessario seguire un percorso di sottrazione e far emergere i criteri certi che portano a connotare un arredo come sostenibile. Dal confronto con designer, ricercatori e aziende, emerge come i criteri più attendibili per dare la targa green a un arredo siano legati ai concetti di qualità, necessità e servizio. Perché laddove viene garantita la qualità del prodotto ne segue una maggiore durabilità, quindi un minore uso e consumo di risorse. Il criterio di necessità spinge invece a soddisfare reali bisogni, portando a ridurre il numero di prodotti acquistati e di conseguenza le ricadute sull’ambiente. Infine, la ricerca di soluzioni per incrementare e sostenere l’economia circolare spinge al rafforzamento del concetto di servizio legato al prodotto, aprendo la strada a un nuovo modo di approcciare il mercato. Ne è un esempio il leasing che implica la scissione tra proprietà e utilizzo, per garantire che lo stesso prodotto possa essere utilizzato più volte da soggetti diversi, allungandone significativamente il ciclo di vita. Strada che presuppone la realizzazione di sistemi di arredo resistenti e durevoli, quindi di alta qualità e con un ciclo di vita lungo; tutte caratteristiche che vanno incontro alla sostenibilità. Anche dal punto di vista economico un tale approccio vanta indubbi vantaggi, perché si potrà disporre di prodotti di qualità, spesso più costosi, senza doverli necessariamente acquistare, sarà sufficiente affittarli quando necessari e dismetterli quando non più in uso, offrendo loro una seconda vita.
In un panorama così complesso diventa difficile stilare una lista di materiali ecologici, perché le caratteristiche green di uno specifico materiale dipendono in larga parte dal modo in cui viene impiegato. Il prodotto deve essere green in ogni tappa del suo ciclo di vita e rispondere a specifici parametri di utilizzo, abbracciando una visione olistica. Non è sufficiente selezionare una materia prima ecologica, ci si dovrà assicurare che la stessa sia disassemblabile a fine vita, che il processo di produzione segua una filiera virtuosa e che il risultato finale sia resistente e durevole.
Quindi è premiante la scelta di materiali a valenza ambientale ma in un’ottica di valutazione complessiva del ciclo di vita, come emerge dall’intervista a Marco Capellini, ceo di Matrec.
Per aiutare il consumatore a orientarsi nelle diverse sfaccettature della sostenibilità e scegliere con consapevolezza, sono nate certificazioni di prodotto, filiera o processo, che permettono di capire se effettivamente un prodotto può essere parte del concetto di sostenibilità, senza essere tratti in inganno dal greenwashing. Tra queste lo standard di sostenibilità LEVEL-Femb creato per fornire una guida per gli sviluppatori, i produttori e per gli acquirenti di arredi per ufficio con informazioni complete sui criteri di sostenibilità.
E in futuro? L’auspicio è che designer e aziende che operano nell’ottica del green design assumano progressivamente un nuovo ruolo, passando da soggetti che rispondono acriticamente alle richieste del mercato, senza considerarne la sostenibilità, a educatori e promotori di una nuova cultura, filtrando le richieste e stimolando la domanda con nuove soluzioni, sistemi e materiali.
Le diverse sfaccettature della sostenibilità
Difficile dare una definizione unica di sostenibilità, perché si tratta di un termine che abbraccia diverse discipline e riguarda tutte fasi del percorso che dalla progettazione arriva allo smaltimento e riciclo di uno specifico oggetto o arredo.
Esprimono chiaramente il concetto Andrea Trimarchi e Simone Farresin, fondatori dello studio Formafantasma con sede ad Amsterdam: “L’idea di sostenibilità è estremamente complessa e non riguarda solo il design del prodotto. Non serve a nulla avere prodotti sostenibili se il business model dell’azienda non è altrettanto sostenibile”.
Amplia l’argomento Luca Nichetto, designer con studio a Stoccolma e Venezia: “La vita del prodotto e la sua qualità intrinseca sono i fattori che rendono il prodotto sostenibile. Partendo dal presupposto che qualsiasi tipo di azione facciamo inquiniamo, uno dei compiti del designer riguarda l’educazione del consumatore o dell’utilizzatore. Bisogna per esempio far capire che un certo prezzo, corrispondente a un certo tipo di qualità, spesso è sinonimo di durata di vita del prodotto. Purtroppo, siamo arrivati a una percezione delle necessità tale che la tendenza è di soddisfarle subito, senza fermarsi e riflettere su ciò che si vuole comprare e sulla fondamentale importanza di scegliere anche in base alla qualità. Sono convinto che una sedia in plastica, funzionante ed ergonomica, sia più rispettosa dell’ambiente di una sedia in legno, realizzata male e scomoda, che viene presto buttata via. Bisognerebbe essere utilizzatori più consci di quello che si compra, sostenendo, attraverso scelte basate sulla qualità, anche gli artigiani e la filiera dell’indotto. Perché il ‘saper fare’ viene annullato se i criteri di scelta sono dettati unicamente dal prezzo”.
È della stessa idea Alessandro Novelli, designer dello studio toscano Baldanzi&Novelli, quando afferma che: “La prima fase della sostenibilità è quella di smettere di produrre oggetti inutili, che servono solo a riempire lo spazio e di cui potremmo fare a meno. Si vedono sempre più prodotti a basso costo, realizzati con materiale di dubbia provenienza e dove viene utilizzata manodopera sottopagata. Bisognerebbe dunque eliminare prodotti pessimi e ridare dignità non solo al prodotto, ma anche a chi li produce e a tutte le figure coinvolte nella filiera produttiva”.
Si inseriscono nel dibattito i committenti, le aziende attive nel campo delle forniture d’arredo e dei materiali per l’architettura, che ci raccontano cosa significa per loro essere sostenibili.
Un esempio è quello di Florim, realtà attiva nel mondo del gres porcellanato, recentemente diventata Società Benefit, impegnata nel ridurre al minimo il proprio impatto sull’ambiente: “Per la nostra azienda ‘green design’ significa studiare e creare un prodotto sostenibile, di altissima qualità e durevolezza. Si comincia selezionando i migliori ingredienti naturali, attentamente controllati e miscelati cercando di includere il maggior quantitativo possibile di materiale riciclato. Poi interviene la più evoluta tecnologia, sapientemente implementata e guidata dall’esperienza dell’uomo per garantire qualità, sicurezza, rispetto dell’ambiente e delle persone. Il risultato sono prodotti ceramici che garantiscono l’assenza di emissioni di sostanze inquinanti e assicurano durata nel tempo, rappresentando in pieno i principi base dell’economica circolare: ridurre, riusare, riciclare”.
Claudio Feltrin, presidente e amministratore delegato di Arper spiega: “Sostenibilità significa implementare nuovi modelli e comportamenti che rispettino il delicato equilibrio del pianeta e delle sue risorse vitali. Aziende sostenibili nascono da prodotti sostenibili e traggono linfa vitale da visioni e azioni sempre più ambiziose, da cambiamenti a livello organizzativo, da evoluzioni dei processi e da mutamenti culturali. Per questo, nel 2005, abbiamo creato il Dipartimento Ambientale Arper, un primo passo in un mondo in cui la sostenibilità si stava affermando sempre più quale tematica di importanza cruciale per la nostra generazione. Il nostro obbiettivo finale è quello di ridurre l’impatto ambientale causato dall’estrazione, manipolazione, produzione, spedizione, utilizzo e riciclaggio dei materiali. È un processo lento e scrupoloso, fatto di una di piccoli traguardi a fronte di una crisi climatica travolgente, ma l’enormità del problema e le catastrofiche ripercussioni causate da una mancata reazione richiedono una vigilanza continua e un costante impiego di tempo, abilità, risorse e idee”.
La percezione della sostenibilità
Se tendere verso una selezione di prodotti di qualità realizzati attraverso filiere virtuose e utilizzando materie prime riciclabili ed elementi disassemblabili è l’ambizione massima per gli ‘eco-sensibili’, la realtà del mercato a che punto è? Qual è lo stato di fatto? Sicuramente ci sono ancora profonde differenze a seconda del contesto in cui si opera, che può essere più o meno pronto a recepire i valori della sostenibilità. Questo quanto emerge dal confronto coi designer coinvolti nell’articolo.
“I nostri clienti sono sparsi in diversi Paesi e continenti, motivo per cui ci interfacciamo con realtà molto diverse tra loro, – afferma Luca Nichetto –. Per alcune aziende, ancora molto indietro sui temi legati alla sostenibilità, non è basilare ridurre l’impatto della propria produzione sull’ambiente, mentre altre aziende si rendono conto che la sostenibilità è parte del valore del prodotto stesso. Per la nostra esperienza la Svezia e la Scandinavia sono molto avanti su questi argomenti. In Italia siamo più indietro. Faccio un esempio concreto: mentre in Scandinavia si discuteva se usare il Cromo 6 o Cromo 3, in Italia non si parlava nemmeno della possibilità di usare il Cromo 3, perché le aziende pensavano che il cliente avrebbe criticato la minor brillantezza del materiale. Si tratta di situazioni completamente diverse a partire dall’approccio, perché in Italia è mancata la volontà di educare il consumatore affinché capisse il motivo sostanziale per cui si preferiva scegliere un cromo meno brillante; semplicemente si realizzava quello che il cliente chiedeva. Ci sono dunque paesi dove viene dato per scontato che il percorso progettuale includa i temi della sostenibilità, e paesi, come ad esempio India e Cina dove queste caratteristiche non sono parte integrante della richiesta fatta al designer”.
Parla della propria esperienza sul campo anche Alessandro Novelli: “Il tema della sostenibilità in paesi emergenti come Cina e Brasile, dove la nostra attività si esplica nella maniera più completa e diffusa, non è in questo momento particolarmente sentito. Nella nostra esperienza diretta, in questi paesi il tema della sostenibilità non ha spazio e considerazione, anzi certi temi infastidiscono addirittura, perché i committenti ritengono che l’attenzione verso la sostenibilità impedisca loro di crescere. Quello che ci viene richiesto non è quindi trattare progetti green, ma realizzare prodotti di buon design che possano battere la concorrenza e collocarsi tra i grandi gruppi di produzione internazionali. Le volte che abbiamo provato a inserire nei nostri progetti anche riflessioni sul valore della sostenibilità non sono state prese in seria considerazione, con un’enorme perdita di valore”.
La ricerca e le iniziative delle aziende produttrici
L’impegno delle aziende nell’ambito della sostenibilità riguarda sia la cultura del progetto sia, concretamente, la capacità di sviluppare innovazione in termini di materiali, filiera produttiva, soluzioni per il riciclo e per il disassemblaggio a fine vita. Ne parlano tre aziende virtuose coinvolte in questo confronto di idee proponendo altrettante chiavi di lettura.
Lorenza Luti, direttrice marketing & retail di Kartell, racconta come l’azienda si stia concentrando sui materiali di nuova generazione: “Oggi lavoriamo per ottenere risultati che la tecnologia prima non ci aveva consentito, attraverso la proposta di materiali nuovi e sostenibili, come la materia prima riciclata, i biopolimeri derivati da scarti vegetali e legno proveniente da foreste certificate, lavorato in modo brevettato per ridurre al massimo il consumo di materia prima. Inoltre, abbiamo introdotto nel nostro catalogo ceramiche certificate per lavorazioni sostenibili e dal prossimo anno introdurremo tessuti di rivestimento realizzati con un filato ottenuto da bottiglie di plastica raccolte dal mare. Non solo, l’intera filiera del processo produttivo vede Kartell impegnata a salvaguardare l’ambiente e a rispettare i protocolli di sostenibilità”.
Confermato da Florim: “L’impegno aziendale in ottica di miglioramento continuo e ricerca è costante e coinvolge vari ambiti. Il processo produttivo è virtuoso fin dall’origine, in quanto il prodotto ceramico Florim è realizzato per oltre il 90% con materie prime naturali di altissima qualità. Il 100% degli scarti crudi di produzione viene poi riciclato, il 100% delle acque reflue è riutilizzato e l’energia elettrica necessaria al funzionamento degli stabilimenti può essere autoprodotta internamente fino al 100% grazie a 45.000 mq di pannelli fotovoltaici e due impianti di cogenerazione. Tutti gli imballi dei materiali Florim sono realizzati con carta riciclata e tutte le coperture sono completamente riciclabili dall’utilizzatore finale”.
Claudio Feltrin, di Arper, sottolinea come la sostenibilità sia parte dell’idea stessa del prodotto e della filosofia aziendale: “Progettiamo arredi durevoli e senza tempo che possano trascendere le mode e servire a diversi scopi durante la loro lunga vita. Valorizziamo leggerezza e semplicità per ridurre al minimo l’utilizzo di materiali. Il nostro approccio modulare alla costruzione riduce la complessità produttiva e incoraggia lo smontaggio e il riciclo dei componenti. Infine, implementiamo tecnologie soft in tutte le nostre realizzazioni. Stiamo ragionando anche sul cosiddetto bilancio sociale, perché riteniamo necessario valorizzare l’azienda anche per le azioni meno legate a un fattore economico, che nel tempo possono diventare ancora più importanti dei numeri stessi.
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Certificazioni e ciclo di vita
In un panorama in cui il termine sostenibilità è stato spesso usato con troppa leggerezza e in cui il greenwashing, neologismo che indica la strategia di comunicazione di aziende che mostrano una ‘facciata ecologista’ che non rispetta la realtà dei fatti, ha generato confusione e incertezza, un parametro certo per i consumatori sono le certificazioni rilasciate da enti terzi. Di prodotto o di filiera, le certificazioni garantiscono l’operato virtuoso, superando le definizioni di ‘ecologico, sostenibile, green, naturale’, spesso illusorie.
Parla del proprio impegno in questo contesto Lorenza Luti: “L’impegno di Kartell nell’attuare e migliorare sempre più il sistema di gestione ambientale è garantito dall’adesione ai protocolli di certificazione internazionale e proprio in tema della tutela della salute vanta su tutti i prodotti la certificazione GreenGuard, che assicura un basso livello di emissioni e quindi salvaguarda la qualità dell’aria negli ambienti interni. Stiamo inoltre lavorando con il materiale Bio, con cui abbiamo realizzato una nuova versione di Componibile, divenuto il primo prodotto in materiale totalmente naturale e biodegradabile che ha ottenuto l’unica certificazione esistente al momento, quella del TÜV, con il massimo delle prestazioni raggiungendo 4 stelle. Anche il legno che utilizziamo per la Smart Wood Collection è un legno certificato FSC, che garantisce la provenienza da foreste rinnovabili”.
Anche Arper negli ultimi quindici anni ha utilizzato le certificazioni come strumento per misurare e tenere traccia degli sforzi fatti nella direzione della sostenibilità, ottenendo sia certificazioni di prodotto – EPD International System, GECA (Good Environmental Choice Australia), GreenGuard – sia di processo – EPD Process Certification, FSC (Forest Stewardship Council), ISO 14001. “Eseguiamo approfondite valutazioni del Ciclo di Vita dei nostri prodotti per assicurarci che siano in linea con gli standard di settore e con gli standard di riferimento da noi elaborati – prosegue Claudio Feltrin –. Le informazioni raccolte ci permettono di analizzare e condividere le ripercussioni dei nostri prodotti prima che raggiungano la fase di produzione. La trasparenza è un fattore di importanza fondamentale. Meritiamo tutti di conoscere l’impatto che ciascun prodotto ha sull’ambiente”.
Ed è proprio l’analisi del ciclo di vita di un prodotto una chiave fondamentale nel valutare la sua sostenibilità e sta diventando il motore per spingere il mondo del design verso il prossimo traguardo, che coinvolge il settore dei servizi.
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Il design come servizio
L’analisi del ciclo di vita di un prodotto e l’ambizione di renderlo sempre più lungo per aderire alla filosofia di produrre meno ma meglio, porta inevitabilmente a un aumento dei costi, perché se un prodotto deve durare a lungo dovrà essere composto di materiali di alta qualità ed essere prodotto seguendo i processi industriali più innovativi. Un valore, quello della lunga durata che se abbinato al concetto di necessità introduce un nuovo aspetto della sostenibilità: il servizio.
Con riferimento al mondo ufficio questo significa ad esempio la condivisione degli arredi e dell’introduzione di nuovi servizi nel mondo del design. Ne parla Luca Nichetto: “Quando si aumenta la qualità di un prodotto, e quindi la sua sostenibilità, spesso si aumenta anche il costo. Ma se invece di dover investire in un elemento più caro, l’azienda utente lo potesse affittare, si potrebbe inaugurare il business model del leasing, che potrebbe diventare interessante e conveniente per i produttori di arredi e soluzioni per l’ufficio. Tutti i prodotti per l’ufficio – pensando a tavoli, sedie, contenitori e divisori, dovrebbero dunque essere pensati con l’idea del leasing: se un’azienda che ha mille dipendenti decidesse di ridurre la propria sede favorendo lo smart working, dovrebbe poter avere a disposizione la flessibilità anche in termini di ‘quantità’ di arredi. Questo servizio porterebbe a una forte spinta verso il second hand, obbligando a prevedere una durabilità diversa e più lunga per ogni prodotto”.
Una visione che si sposa con quella su cui sta lavorando anche la Commissione UE, come racconta Marco Capellini, CEO di Matrec, Osservatorio internazionale sull’innovazione sostenibile: “L’innovazione corre molto velocemente e la necessità di tenere conto anche degli aspetti di sostenibilità e circolarità, sta aprendo degli scenari molto interessanti. La stessa Commissione UE nell’ultimo Action Plan sull’economia circolare, ha espresso molto chiaramente che la direzione è quella di andare verso un’offerta di mercato caratterizzata da “prodotti come servizio” o di altri modelli in cui i produttori mantengono la proprietà del prodotto o la responsabilità delle sue prestazioni per l’intero ciclo di vita. A questo vanno aggiunte altre peculiarità di progetto come la durabilità, la riutilizzabilità, la possibilità di upgrading e la riparabilità. Questo è senza dubbio uno scenario che prevede di ripensare le modalità di un progetto. Come Matrec nel 2014 abbiamo creato un osservatorio internazionale finalizzato a mappare costantemente alcuni comparti merceologici, tra cui l’arredo, per analizzarne le caratteristiche di circolarità. Abbiamo censito casi di aziende che si sono già attivate con strategie mirate alle circolarità, sia per quanto riguarda gli aspetti materici, sia per le nuove modalità di offerta sul mercato”.
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Il design del futuro e il ruolo di progettisti e committenti
Alla luce di quanto scritto, spostiamo lo sguardo sempre più in là, per capire cosa ci aspetta, quali prospettive si apriranno e come sarà il design del futuro. Se, come sottolinea Alessandro Novelli, il futuro sarà la traduzione dei mutamenti del mondo e si dovrà superare il concetto di ‘buon design’, Luca Nichetto si rivolge anche al ruolo di progettisti e aziende: “Il design nel medio termine penso debba tornare a essere focalizzato sull’utilizzatore. Per tanti anni, troppi forse, noi designer assieme alle aziende abbiamo fatto lo sbaglio di guardare alle richieste del cliente, che non necessariamente coincidevano con un reale bisogno. Abbiamo privilegiato quello che ipoteticamente i negozi o gli agenti o i distributori ci riportavano. Ma queste informazioni si riferivano a quello che è già successo, mentre quando si fa un progetto bisogna proiettarlo nel futuro. Purtroppo, l’intera nostra industria si è mossa più verso il B2B anziché B2C, come invece avrebbe dovuto essere. Facendo anche un mea culpa, penso che prima di tutto dovremmo essere più focalizzati su quello che veramente può essere importante per l’utilizzatore, cercare di educarlo nel capire perché bisogna utilizzare un tipo di prodotto anziché un altro e fare quindi un lavoro di educazione. Non penso che il designer si possa più permettere di pensare solo al prodotto fine a se stesso, ma deve avere una visone olistica e diventare un art director di se stesso, lavorando contemporaneamente su due asset: l’asset creativo e di conoscenza su come fare un prodotto, ma anche quello di consulenza verso l’azienda committente, per spingerla e aiutarla ad avere visioni diverse. Penso che nel futuro ci saranno meno prodotti, si tornerà ad avere un focus più forte, ci saranno meno ‘situazioni Instagram’ e più reali, ci sarà meno l’idea dello show. Dovremo essere più coraggiosi e radicali su quanto proporremo”.
Il duo di Formafantasma immagina il design del futuro: “Molto meno focalizzato sull’autore, molto più aperto ed espansivo, dove la fase di ricerca e quella progettuale sono sempre più legate. Ci auguriamo che il designer diventi sempre di più un consulente che progetti oltre il prodotto singolo e in sinergia con la committenza, includendo a livello progettuale l’analisi della filiera produttiva, distributiva e di riciclo”.