L’ufficio sei tu!
Analisi tecnico antropologica per immaginare il futuro del lavoro
* Articolo a cura di Loris Corò e Alessandro Dalla Pozza www.adpdesign.it
Il tema del lavoro ha assunto una dimensione incerta a seguito delle dinamiche messe in atto per contenere il dilagare dei contagi da Coronavirus, rappresentando un evidente nervo scoperto anche per chi si occupa a livello professionale delle tematiche a esso connesse.
Sebbene sancito dalla Costituzione tra i principi fondanti della nazione, il lavoro, inteso non solo nell’accezione giuridica, risulta essere argomento delicato e fragile proprio perché determinato dal momento in rapida evoluzione e quindi sconosciuto che stiamo vivendo.
Dal confronto tra competenze diverse, nasce questo articolo avente l’obiettivo di elaborare una piattaforma di criticità sulle quali definire delle nuove traiettorie operative nel mondo del lavoro. Una visione multidisciplinare e multidimensionale che, a partire da un’analisi antropologica condita da pragmatismo, guarda alla centralità della persona al lavoro, nello spazio-luogo e nell’ambiente.
Noi lavoriamo in una “città di pietre” rappresentata dagli strumenti che ci permettono di eseguire i compiti assegnati, ma allo stesso tempo nella “città delle anime”, cioè in spazi propedeutici alle relazioni, alla memoria, all’apprendimento e alla conoscenza, non riconducibili a una realtà tangibile
Da Spazio a Luogo
Troppo spesso nell’odierna società si tende a semplificare fatti, concetti e azioni, spinti da una schizofrenica necessità comunicativa. Ne consegue che spesso le successive elaborazioni degli stessi concetti portino fuori strada senza che ne sia chiara la ragione. L’evoluzione di parole distorte e di contenitori inappropriati, spinti dalla forzata e banale semplificazione, genera infatti incomprensione e incapacità di visione futura.
Enzo Mari, in un’intervista televisiva, diceva: “per capire la qualità massima raggiungibile dall’uomo dobbiamo fare un viaggio nel passato, l’unica realtà che conosciamo. La conoscenza del mondo è basata sulla storia. Nella storia è implicito il futuro non i dettagli decorativi”. Tale incontrovertibile affermazione evidenzia i limiti di questo moderno manierismo linguistico, spesso originato da parole straniere, che del tutto assimilabili a “pastrocchi” autoreferenziali, non generano visioni future. Questo accade oggi quando si parla delle modalità di lavoro spinte dalla pandemia, che mezzi di comunicazione, organizzazioni e autorità pubbliche hanno accorpato sotto la voce di Smart Working, un contenitore che non rappresenta la modalità di lavoro in uso, cioè quella del lavoro da casa. Il lavoro da remoto dalla propria abitazione nulla ha a che vedere con l’aggettivo Smart che sta a significare rapido, intelligente, bello, brillante… soprattutto quando si sovrappone, senza regole, alla vita domestica più intima. A questa fallace semplificazione lessicale si aggiunge la confusione del concetto di spazio con i valori del luogo. Lo spazio di lavoro non è il luogo di lavoro. Lo sapevano bene i romani ai quali era ben chiara la differenza tra Civitas e Urbs, la prima origine etimologica di città e la seconda di urbe. I latini sapevano che la Civitas è la “città delle anime” e la Urbs è la “città delle pietre”, in altri termini riuscivano a distinguere quello che è un’entità fisica concreta da quello che è un’entità astratta. Così non accade nelle accezioni erroneamente date allo spazio di lavoro, dove è necessario distinguere tra il concetto di lavoro, inteso come capacità operativa e produttiva, e la fisicità spaziale dello stesso. Confondiamo le due realtà non capendo che gli aspetti concreti e gli aspetti impalpabili fanno parte della stessa entità come lo sono la Civitas e l’Urbs. Noi lavoriamo in una “città di pietre” rappresentata dagli strumenti che ci permettono di eseguire i compiti assegnati, ma allo stesso tempo nella “città delle anime”, cioè in spazi propedeutici alle relazioni, alla memoria, all’apprendimento e alla conoscenza, non riconducibili a una realtà tangibile.
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L’architettura è l’arte di organizzare lo spazio, ma solo l’uomo ha la forza e il potere di trasformare lo spazio in un luogo
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Si è sempre parlato di spazio lavoro, quando in realtà dobbiamo preoccuparci del luogo di lavoro affinché lo spazio assuma valore per la qualità di vita reale.
In questo momento storico di radicale cambiamento, tutto questo risulta ancora più confuso perché le attività lavorative hanno accezioni tra il reale e il virtuale dove le attività si alternano, si integrano e si compensano. La differenza facilmente percepibile tra una riunione via web e incontro dal vivo è tutta nel luogo e non nello spazio utilizzato. Lo spazio è un insieme di oggetti e di persone, ma è nei luoghi che ci sono relazioni e rapporti nei quali l’efficienza e l’efficacia albergano.
I luoghi sono importanti e fondamentali per l’uomo nella misura in cui soddisfano i nostri bisogni. Per questo la casa, come l’ufficio, rimarrà sempre uno spazio se non soddisfa i nostri bisogni! In quest’ottica di luogo e non di spazio, dobbiamo volgere le nostre attenzioni perché ci aiuta a conoscere noi stessi, gli altri e ci permette di vivere il momento del lavoro come parte intima della vita. L’architettura è l’arte di organizzare lo spazio, ma solo l’uomo ha la forza e il potere di trasformare lo spazio in un luogo. Diventa così strategica la figura dell’architetto e del progettista il quale, però, deve avere la piena consapevolezza della giusta identità dello spazio e del luogo.
Nelle nuove abitazioni lo spazio per lavorare dovrà essere concepito come parte integrante dell’ambiente do mestico e supportato dalle innovazioni tecnologiche di rete e di prodotto. Sarà inoltre necessario generare nuovi arredi, non trasmigrati da contesti diversi. L’oggetto come risposta a veri bisogni deve assolutamente essere frutto della tipologia di luogo. Parafrasando Enzo Mari, soluzioni di prodotto con genesi diverse (ad esempio per l’ufficio) adattate a luoghi diversi (la casa) potranno solo generare “dettagli decorativi” che non portano a nulla e non generano benessere.
La persona all’interno della dimensione lavorativa
Nell’odierno dibattito sugli esiti della pandemia, un ruolo principale spetta alle argomentazioni di natura economica, alle preoccupazioni per il futuro sia a livello macro, sia a livello micro. Il tratto che caratterizza le argomentazioni è quello della perdita, declinata in modalità che di volta in volta assumono le forme della perdita del lavoro, perdita di competitività, perdita di fatturato, ecc. Perdita come privazione di qualcosa di tangibile, perdita come regressione a una condizione inferiore, perdita come condizione limitativa e impeditiva dell’agire intenzionale. Perdita come povertà. Questi sentimenti accompagnano lo scorrere del tempo e creano stati di annichilimento. Ne consegue un atteggiamento di disperazione e di sfiducia. Orbene, gli atteggiamenti di disperazione e di sfiducia, entrambi conseguenti ma anche costitutivi della dimensione della perdita, concorrono a determinare una condizione di isolamento ovvero la negazione di una fondamentale caratteristica della Persona: la relazione.
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“L’uomo lavora alle scrivanie, parla di libri mastri, vive in salotti e gallerie d’arte, ma ciò che lo ha portato a questo è stato sviluppato da antenati primitivi, che avrebbero disprezzato i loro discendenti per tutta la vitalità che hanno ereditato e poi sperperato. L’uomo è quello che è, cioè il risultato di innumerevoli anni di diretto contatto con la natura. Man is an outdoor animal!”
James H. McBride, MD, 1902 Journal of the American Medical Association
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L’essere umano è essenzialmente un essere in relazione: con sé stesso, con il mondo che lo circonda. L’essere umano è zoon politikon, sociale e abitante della polis. La Persona umana è dotata di coscienza ed è in grado di assumersi le responsabilità dell’essere in società. Coscienza e responsabilità sociale non si contraddicono, ma sono dimensioni indispensabili per la piena realizzazione dell’uomo che in quanto persona è appunto relazione, relazione con il prossimo. Emerge una vocazione solidaristica, cioè attraverso l’esempio dell’altro e in interazione con i suoi atti dell’odiare e dell’amare. Altrettanto la libertà della persona non è più risolvibile nel libero arbitrio del soggetto, ma diventa una libertà situata, cioè condizionata dal problema della realizzazione solidaristica della persona. A partire da questo assunto, la definizione di centralità della Persona va intesa nei termini di individui che fanno parte e che continuamente concorrono a formare una rete di relazioni, dirette e indirette, aventi scopi comuni e obiettivi differenti. Essere al centro non significa primeggiare, essere destinatario di attenzioni privilegiate o particolari né, tantomeno, esercitare forme di controllo o esercizi di potere. Il microcosmo personale rappresenta un nodo in continua relazione con gli altri nodi della rete chiamata, di volta in volta, famiglia, gruppo (es.ufficio), città, ecc.
In conformità a quanto espresso, la collocazione fisica della persona all’interno della dimensione lavorativa e dei luoghi in cui la prestazione si esplica rispetterà le caratteristiche di relazionalità e di socialità. Perché questo possa avvenire, i luoghi deputati possono essere aree delle biblioteche comunali presenti sul territorio, sedi di associazioni di volontariato, i patronati parrocchiali. Tutte queste strutture sono destinate a scopi di natura sociale e svolgono, attraverso le persone in esse presenti, compiti solidaristici. La persona che vi si reca per svolgere la prestazione lavorativa “altra” si immerge in uno spazio comune e comunitario, tale da consentire sia l’esecuzione della prestazione sia l’appagare il senso di appartenenza alla comunità, come antidoto all’isolamento e come elemento di formazione identitaria. Anziché sviluppare nodi della rete “focali” e distanziati, si avranno nodi della rete connessi e vicini, senza dare luogo a quelle forme di separatezza e di lontananza che sono l’humus per il proliferare di virus altrettanto letali quanto il COVID-19.
Evitare il Pianeticidio
L’attuale dimensione di emergenza pandemica ha fatto affiorare e reso tangibile il “pianeticidio” in corso. Una condizione a livello globale dove la ricercata ed esaltata libertà soggettiva (del singolo) ha offuscato il valore della libertà cosiddetta oggettiva (della comunità), troppo spesso messa in secondo piano. La pandemia ci sta dando un insegnamento magistrale: per salvare il mondo il concetto di libertà va rimodulato. Una visione collettiva all’interno della quale il pianeta Terra ha ruolo centrale. Questa strabica visione dove la centralità dell’uomo e dell’ambiente paiono in contraddizione sono invece oggettivamente parte dello stesso processo sostenibile. Per salvare noi da noi stessi dobbiamo pensare al rispetto del bene assoluto che è la vita. Il pianeta Terra è l’unico luogo dove la vita si esprime.
Da qui che organizzazioni, processi, attività, prodotti, costumi, cioè “scelte”, devono avere come primo obiettivo l’ambiente e la sostenibilità. Purtroppo, questa attenzione viene spesso praticata con la semplice rispondenza ai limiti di legge o alle procedure, tutti parametri che normalmente sono pensati per identificare il limite minimo invalicabile. Le eccellenze invece si posizionano molto al di sopra dove l’obiettivo è quello di immergersi integralmente nel processo mentale che porta alla vita. In questo ambito il luogo di lavoro deve essere il risultato di questa spinta e non un succedaneo artificioso e limitato. È finito il tempo dei furbetti che si nascondono dietro a “parole di plastica” come “conforme alle norme” o “a basso impatto”. Sia produttori che consumatori sono chiamati all’appello per una salvaguardia della libertà cosiddetta oggettiva: la vita umana.
Processi di economia circolare come di progettazione biofila devono essere profondamente veri, onesti, trasparenti e non realtà mascherate.
In questo sistema globale il ruolo del progettista diventa centrale. Nel suo operato a servizio dei bisogni delle persone ha una responsabilità sociale di primaria importanza. Ne consegue che deve essere depositario di conoscenza e quindi formato per un processo di apprendimento continuo. Sulla stessa direttrice, le aziende produttrici, devono abbracciare la logica della economia circolare già al nascere delle idee strategiche basandosi sulle famose tre “R” (Reduce-Reuse-Recycling) in maniera da mettere a disposizioni del mercato prodotti realmente sostenibili. Le attuali logiche distorte del minor prezzo devono essere sostituite con quelle del miglior prezzo, cioè del prezzo al consumatore che tiene conto sia del giusto profitto che del poco impatto sull’ambiente. In questo anche il consumatore deve partecipare in quanto entità dotata del potere di scelta, come sopra accennato, ma a sua volta deve essere informato e formato in maniera completa.
La biofilia come espressione dell’amore per la vita è, ad esempio, la giusta prospettiva alla quale il progettista delle architetture, degli interni e del prodotto deve tendere, proprio perché processi naturali votati alla valorizzazione del benessere delle persone e dell’ambiente. Anche in questa modalità, che non è una semplice moda passeggiera, sono purtroppo insite interpretazioni superficiali come, ad esempio, la banale aggiunta di vita vegetale all’interno degli spazi chiusi. In realtà la situazione è molto complessa. Dobbiamo essere consapevoli che i principi si basano su concetti legati all’ancestrale natura umana e non dal semplice apporto di verde all’interno degli spazi. La conoscenza della natura nello spazio (stimoli sensoriali, luce dinamica, variabilità termica, etc), delle nature analoghe (materiali, modelli biomorfici, complessità, ordine/casualità, etc.) e della natura dello spazio (mistero, prospettiva, rifugio, etc) ci permetterà di non rimanere in superficie ma di scendere nella profondità del tema rendendo le case e gli uffici efficienti ed efficaci come devono essere i luoghi di incontro, quindi di relazione, con gli altri e con se stessi.
Il lavoro post pandemia
In un recente articolo apparso su “Il Sussidiario.net” e relativo alla situazione emergenziale pandemica, l’autore, Giulio Sapelli, scrive tra l’altro:
“La produzione manifatturiera a livello mondiale è tornata a livello pre-Covid, grazie alla persistenza della domanda dei prodotti finali e a un’ottima ripartenza degli ordini da parte dell’industria intermedia. Crollano i servizi legati al turismo e al tempo libero. Si sviluppano, invece, i servizi alle imprese digitali e di intelligenza artificiale con una razionalizzazione del lavoro d’ufficio, che è una razionalizzazione tecnologica centralizzata e tale da superare tutti gli ostacoli del passato. Ostacoli che consistevano nell’impossibilità di controllare il lavoro impiegatizio privato: controllo che ora lo smart working rende, invece, possibile per la prima volta nella storia mondiale della razionalizzazione del lavoro d’ufficio, con un aumento delle prestazioni orarie che sarà la vera novità antropologica del lavoro nell’impresa di domani nella riattualizzazione tecnologica di forme lavorative precapitalistiche (il putting system)”.
L’enfasi sul controllo esercitato è un aspetto di una più ampia questione: controllo come forma di esercizio di un potere contrattualmente previsto e regolato, controllo come espressione di un potere disciplinare e controllo come espressione di un mancato o parziale rapporto fiduciario tra le parti. Questione annosa che nessuna tecnologia centralizzata può superare, se non attraverso il confronto e la negoziazione, se non partendo dalla considerazione che i lavoratori sono cittadini. Queste due dimensioni si contaminano, nonostante i tentativi, neppure malcelati, di tenerli separati. La pandemia Covid-19 è lì a mostrarci nella sua cruda immagine che l’occupazione lavorativa può risentirne gli effetti, può modificare il nostro status sia lavorativo che giuridico, può consentire di beneficiare o meno di certi diritti di protezione, può cambiare il ruolo sociale fin qui assunto. Essere sicuri, vivere in sicurezza (la sicurezza sociale nelle varie forme note), essere protetti, godere di un mantello protettivo che si apre in determinate circostanze rappresenta una prerogativa non individuale, ma sociale. Viviamo in un Paese che ribadisce il legame tra lavoro e cittadinanza, nonostante questo subisca i colpi ad opera delle trasformazioni intervenute negli assetti economici e sociali.
Questo impone un nuovo patto tra lavoro e cittadino, nelle forme e nei modi: l’attuale situazione potrebbe favorirne la riscrittura. I cittadini non hanno bisogno di semplici interventi di sussidio, che forse riescono a garantire la mera sopravvivenza e far dimenticare che il lavoro è anche dignità della Persona.
Essere cittadino e lavoratore vuol dire vivere in modo attivo il legame sociale, concorrendo alla costruzione del benessere collettivo, alla costruzione di un significato e di un senso condivisi.
Questo non è solo auspicabile, ma urgente. Passa attraverso la rimozione di ostacoli che non sono quelli citati nell’articolo (impossibilità di controllare…), bensì nella scrittura di un patto tra i diversi attori che formano la Società, anche attraverso un’alleanza intergenerazionale, anche attraverso pratiche formative dirette alla definizione e identificazione del cittadino, stabilendo un diritto alla formazione lungo tutto l’arco esistenziale e non solo marginalizzarla nella prima fase di questa.
Cittadino-lavoratore = maggior competenze, maggior partecipazione. Questo è quanto si può e si deve chiedere adesso per poter creare le condizioni di superare l’attuale momento.